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Immagine del redattoreAnita Ferrari

La relatività del Brutto

Dipingere ignorando i canoni di bellezza



E se poesie e immagini non possono

salvare nessuno, possono però farci

accettare la vita.

 

Robert Adams



La produzione artistica, in questo caso parliamo di quella pittorica, ma potremmo tranquillamente estendere il discorso a molteplici discipline, avviene in svariati luoghi. Notoriamente questi luoghi vengono distinti in due macro categorie: quelli “più tradizionalisti” e quelli “più contemporanei”. Per chi non fosse solito frequentare questi ambienti, per approccio tradizionale alla pittura s’intende lo studio delle tecniche in modo classico, come succedeva negli atelier fino all’inizio del Novecento per intenderci, in cui si apprendeva la materia pittorica attraverso l’esercizio pratico come qualsiasi altra disciplina, lasciando poco spazio alla creatività individuale fatta eccezione per pochi e rari casi; chi invece predilige un approccio contemporaneo agisce nella direzione diametralmente opposta, lasciando l’allievo fin troppo libero di seguire la sua intuizione senza alcun tipo di guida.

Nella condizione culturale in cui si trova la società contemporanea, ritengo dannoso sia l’imposizione rigida di dogmi, sia una libertà incontrollata e potenzialmente anarchica. La cultura per germogliare al meglio richiede inizialmente un guida, che tuttavia deve avere la sensibilità di non imporsi, lasciando una certa possibilità di espansione derivante dalla curiosità insita nell’allievo. La parola chiave in questo caso è dunque mediocritas.

 

Ora, chiarite queste due categorie è necessario capire perché esistono. Malgrado tutti gli sforzi compiuti dagli artisti durante il secolo scorso, l’arte contemporanea è ancora considerata dalla maggioranza “brutta”. E per maggioranza non intendo solo chi l’arte la conosce timidamente per nome, ma anche chi pretende di praticarla. Lasciando da parte il brutto come categoria estetica, il quale è stato ed è ancora fonte di dibattito, io preferirei discutere di questo argomento in termini quotidiani. Tuttavia se si volesse approfondire tale tema è consigliabile leggere le teorie di tutti quegli intellettuali che hanno affrontato tale argomento tra cui Umberto Eco, Gianni Vattimo, Massimo Cacciari, Carla Lonzi, Adriana Cavarero e molti altri[1].

Comunemente per brutto s’intende qualcosa, un quadro, un oggetto, persino una persona, che non soddisfa un piacere visivo, in inglese diremmo “it isn’t pleasing”, cioè non è piacevole. Il criterio per definire il brutto tuttavia, come d’altro canto quello per definire il bello, proviene da canoni stabiliti dal pensiero comune; derivanti nella maggior parte dei casi, nel frangente specifico della nostra cara società capitalistica, da riferimenti falsificati, costruiti da un mercato che intende vendere un prodotto specifico. Dunque il nostro criterio di bello è illusorio, perché in realtà non è nostro ma è indotto.

Questo nel momento in cui ci si approccia alla pittura, e lo affermo per esperienza personale, è un limite enorme; perché insieme al pensiero, anche la creatività viene corrotta. E nel momento in cui le arti vengono vendute su un mercato che deve rispettare delle regole per poter essere redditizio e funzionale, ogni creazione dell’uomo ne viene influenzata, dalle arti visive, alla musica, alla letteratura. Ecco perché l’arte contemporanea “è brutta”.

Nel corso del Novecento gli artisti si sono accorti del veleno che stava e sta ancora lentamente uccidendo la nostra civiltà, dunque si sono inevitabilmente coalizzati in una resiliente guerra contro la macchina capitalistica. La soluzione preponderante che questi hanno trovato per combattere il mercato dell’arte è rompere il canone estetico che la società aveva coi secoli accettato, nella speranza di riuscire a trasmettere un messaggio ben più sostanzioso. Ciononostante la storia ha reso evidente come l’uomo abbia deciso di abbracciare il materialismo capitalista a discapito della propria coscienza, motivo per cui ancora oggi l’arte contemporanea viene considerata brutta, ostica, sgradevole e viene banalmente ridotta a una delle tante merci presenti sul mercato. Riguardo a quest’ultimo punto, ci tengo a chiarire che lo è, oggi l’arte è merce, ma tra il frastuono culturale che il capitalismo ci impone sono ancora presenti delle opere genuine, sincere; bisogna solo avere le capacità e gli strumenti per riconoscerle e farle parlare, esattamente come accade nel mondo della musica.

«Capita spesso di sentir dire di qualcuno che non comprende l’arte contemporanea, ma ama quella del passato; tutto ciò nasce da un equivoco fondamentale nei confronti dell’arte stessa e si può essere sicuri che le persone che così parlano non capiscono nulla né dell’arte del passato né di quella contemporanea»[2], Manzoni è uno di quegli artisti visionari, insieme a Fontana e Duchamp, per citarne solo alcuni, che già un secolo fa avevano correttamente intuito il nostro futuro. Il mito dell’età dell’oro è una soluzione apparente, chi apprezza l’arte, o la pittura di un passato troppo lontano non ha e non avrà mai i mezzi per comprenderla, questo per il semplice fatto che l’arte è espressione di un sentire comune a tutti gli uomini in un dato momento del sistema spazio-tempo. Finché non inventeremo la macchina del tempo, e a questo punto non lo ritengo neanche troppo impossibile, non potremo mai capire profondamente l’arte di un altro secolo perché non l’abbiamo vissuto, non l’abbiamo esperito. L’arte è un simbolo, è la rappresentazione di quello che l’artista sente dentro di sé, il messaggio che trasporta è comprensibile solo ed unicamente dall’uomo che ha vissuto quella stessa esperienza. Piero Manzoni in primis era convito che l’arte avesse un’origine psicologica[3], che nascesse da un principio comune a tutti gli uomini, infatti scrive che «l’opera d’arte trae la sua origine da un impulso inconscio che scaturisce da un substrato collettivo di valore universale, comune a tutti gli uomini, da cui essi attingono i loro gesti e da cui l’artista ricava le “arcaì” dell’esistenza organica.»[4], non è un caso che le sue parole ricordino molto la teoria henologica dell’Uno, secondo cui tutto ciò che esiste proviene da una matrice comune.

Manzoni è uno dei tanti esempi di quegli artisti, di quegli uomini che avevano ancora la capacità di ascoltarsi, che non temevano di entrare nel profondo della propria coscienza con l’abilità di risalirne incolumi da un lato e più ricchi dall’altro. Queste sono le caratteristiche che denotano la vera arte, l’aspetto importante da valutare di fronte a un’opera non è tanto la forma, il cui apprezzamento dipende da un gusto puramente soggettivo, quanto più il contenuto; e per farlo non serve aver studiato al contrario di quello che molti pensano, basta essere in contatto con il proprio io interiore. Nel momento in cui ci si trova di fronte al prodotto della coscienza altrui, la nostra coscienza lo riconosce senza il bisogno di alcuna guida nozionistica.

 

Di fronte alla tela bianca quindi l’unico strumento veramente necessario all’artista è il desiderio d’espressione, la tecnica è una mera conseguenza di un’urgenza creativa istintiva e naturale.



[1] È possibile trovare ulteriori approfondimenti e spunti di lettura nel testo Estetica Italiana Contemporanea di Mario Perniola, Bompiani, Firenze, 2017; in cui sono anche contenuti i filosofi sopra citati.

[2] P. Manzoni, Scritti sull’arte, dall’articolo “La ricerca dell’Immagine” datato c.a. 1957. Abscondita, Milano, 2013, pag. 59.

[3] Oggi sappiamo, grazie alla teoria QIP di D’Ariano-Faggin, che l’origine della coscienza e dunque della provenienza comune della creatività umana è spiegabile anche in termini quantistici, dunque l’urgenza di un ritorno alle origini dell’umanità è inconfutabile anche dalle menti più logiche e scientifiche.

[4] P. Manzoni, Scritti sull’arte, dall’articolo “Per la riscoperta di una zona di immagini” datato 1958. Abscondita, Milano, 2013, pag. 59.



Letture consigliate:

Manzoni, Piero. Scritti sull'arte, Abscoondita S.r..l, Milano, 2013.

Adams, Robert. La Bellezza in fotografia. Saggi in difesa dei valori tradizionali. Bollati Boringhieri, Torino, 1995.

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